«The buddhist Absolute and the necessity of the Infinite: a philosophical comparison between Buddhism and Skepticism»,

E’ da poco uscito il saggio intitolato «The buddhist Absolute and the necessity of the Infinite: a philosophical comparison between Buddhism and Skepticism», redatto a quattro mani da Aldo Stella e Federico Divino, nel quale si riflette comparativamente sullo Scetticismo greco antico, mediato anche dalla lettura datane da Hegel, e il Buddhismo, nell’unico modo in cui una “comparazione” può venire teoreticamente svolta, che è quello di riferire i pensatori alla “cosa stessa”, onde vederli, pur distanti in apparenza, dialogare attualmente tra loro e, in tal modo, dialogando noi stessi con loro.

Emerge con nettezza – al di là di espressioni e nozioni giocoforza differenti, le quali sono concrezioni culturali che il pensiero puro deve spogliare, onde ritrovare se stesso nel linguaggio e nonostante il linguaggio – che l’esito cui perviene lo scetticismo greco (ad essere valorizzato è, in particolare, l’ottavo “tropo” di Enesidemo, quello dedicato alla relazione, non a caso) e i concetti buddhisti di “impermanenza” e di “vuoto” indicano la medesima necessità ed indeterminabilità dell’assoluto, dell’infinito.

O, meglio, si impone in entrambe le impostazioni l’impossibilità duplice di affermare l’assoluto determinatamente (dunque, di riferirvisi positivamente) e, parimenti, di negarlo (o, ed è lo stesso, di assolutizzare la dimensione finita, limitata e relazionale dell’esperienza).

Tale impossibilità è la stessa necessità di richiedere l’assoluto da parte di ciò che, essendo relativo, “è” relativamente, quindi privo di consistenza ontologica propria (autonoma, autosufficiente), dunque innegabilmente “impermanente”, diveniente.

Radicalizzando: la relazionalità intrinseca delle determinazioni le rivela – ciascuna e tutte insieme – prive di un essere (identità, sé) proprio, dal momento che la loro essenza non si ritrova in ciascuna di esse, bensì solo nel riferimento alla differenza (a ciò che esse non sono, all’altro da esse). Sicché ciascuna è, in se stessa, “sé e non sé”: una contraddizione.

L’obiezione secondo la quale ciascuna sarebbe bensì intimamente (nella propria essenza) vincolata all’altro da sé ma come negazione di tale alterità è obiezione ingenua. Per una ragione molto semplice: ciascuna determinazione è determinatamente se stessa perché si differenzia, ma non si differenzia poiché è se stessa (quel “poiché” è mera presupposizione: si veda anche, alle pp. 42-43, la critica che viene rivolta a Severino, il quale pretende di mantenere una identità inalterabile a ciascuna determinazione, nonostante veda chiaramente l’intima e necessaria presenza dell’altro da sé in ciascuna di esse).

Se, in altre parole, l’altro da me entra a costituirmi, negandolo, negherei me stesso.

Insomma, ad imporsi è la necessità che, dato l’universo delle determinazioni (il mondo e la sua configurazione quale costrutto soggettivo-oggettivo), questo, mediante l’incapacità di fondare se stesso, dimostri dialetticamente la necessaria implicazione (la presenza inoggettivabile) del fondamento assoluto, il quale è fondamento anche di questa sua dimostrazione, nonché la ragione in virtù della quale il finito (il determinato, l’esistente) si trascenda, togliendosi (trasformandosi radicalmente in atto ablativo) nell’assoluto stesso, il solo che veramente “è”, l’unico autentico incontraddittorio.

Il che, però – viene altresì evidenziato nell’articolo, a scanso di equivocazioni – non configura alcuna deriva nichilista.

Non si delinea, infatti, la cancellazione (nullificazione) empirica del mondo (del piano empirico, dell’orizzonte delle determinazioni), bensì la negazione trascendentale della sua pretesa di essere vero (di “essere” veramente), nonostante la sua macroscopica datità e apparenza, che soltanto la doxa può scambiare per innegabilità, non certo il pensare rigoroso e radicale.

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