Come afferma Aristotele, ciò che caratterizza essenzialmente l’essere umano è la sua intenzione volta alla ricerca della verità: non di una delle molteplici verità soggettive, ma della verità oggettiva, cioè della verità necessaria e universale.
L’intenzione non può venire confusa con il progetto, il quale è sempre rivolto verso fini determinati e si caratterizza per la volontà di pervenire ad essi.
Di contro, l’intenzione di verità non si caratterizza come un progetto di inglobare la verità, che verrebbe negata perché verrebbe ridotta a verità soggettiva. Chi cerca intende oltrepassare il proprio punto di vista, che è sempre limitato, onde pervenire a qualcosa che sia universale e per questa ragione possa venire condiviso da tutti.
Come poter andare al di là dei propri limiti e tendere effettivamente all’autentica verità oggettiva? A nostro giudizio, l’unica garanzia è offerta proprio da quell’intenzione che vale come un consegnarsi senza riserva alcuna alla verità lasciandosi guidare soltanto da essa.
Se il progetto, dunque, pre-tende di arrivare a possedere la verità, l’in-tendere, invece, è un lasciarsi possedere dalla verità medesima per perdersi interamente in essa.
10 Comments
by Arturo Verna
Credo che il “perdersi nella verità” debba venire chiarito. Perché si può perdere solo ciò che si possiede e perdere se stessi lo si può solo a condizione di essere sé stessi. Ma essere sé stessi significa essere veramente. Sicché nella verità non ci si può perdere, si può solo essere. Il perdersi nella verità quindi non è nichilismo. E, poiché essere e verità sono lo stesso, ciò che, essendo nella verità, si perde è ciò che non si è mai (veramente) posseduto. Perdersi nella verità, quindi, significa incrinare la fiducia circa i propri convincimenti, cioè dubitare di verità apparenti, che appunto appaiono tali solo perché credute: l’intenzione di perdersi nella verità è intenzione che ad essere sia solo la verità, cioè intenzione di far valere solo ciò che si afferma da sé, a prescindere dei convincimenti propri o altrui.
by Marco Cavaioni
Caro Arturo,
condivido la tua precisazione, che offre ulteriori spunti di riflessione.
Potremmo dire che ciò che si “perde” ovvero che si “lascia cadere” – in quanto si rivela essa stessa “caduta”, cioè inautenticità, rispetto alla tensione all’autentico – è solo una pretesa d’essere ovvero un “essere” soltanto preteso.
Si toglie non “qualcosa”, bensì una mancanza, sapendola tale.
A venire tolta, in forza del vero e “mediante” noi, è una duplice pretesa, quindi:
1. di coincidere con la verità nella forma della certezza (i “convincimenti propri o altrui”). La certezza, in effetti, si crede immediatamente verità, senza esserlo ma, parimenti, non può non intendere di non essere solo certezza, bensì di essere più che certezza ossia verità. Sicché, in questa in-tenzione, la certezza è intrisencamente sospinta oltre se medesima;
2. di potersi distinguere dalla verità, pretesa di poter consistere veramente, se distinti (altri) dal vero, nel quale soltanto veramente si “è”.
(Segue)
by Arturo Verna
Concordo. Si è nella verità non pretendendo di esserlo (se si pretende di esserlo, per questa stessa pretesa se ne è fuori) né rappresentandosene fuori (fuori della verità non c’è nulla). Forse si potrebbe anche dire: si è nella verità senza averne alcun merito, cioè perché e fintanto che non si accampano privilegi (ragioni per esserlo).
by Marco Cavaioni
Con una precisazione ancora.
Se a togliersi è ciò che sembra soltanto essere ma non è (e che non è mai stato veramente), allora è improprio, a rigore, parlare anche di “toglimento”; se appunto non vi è mai stata “posizione” di quanto viene tolto.
Questo toglimento sarebbe, forse, più corretto chiamare “restituzione” di ciò che veramente è ovvero della verità soltanto.
Ma restituzione non come approdo “finalmente” al vero (come ad un esito o risultato, insomma come ad un “termine”), bensì come esodo indefesso – in forza del vero stesso, presente sempre in noi come intenzione di verità – da tutto ciò che sembra vero ma non lo è ed è dal vero falsificato.
(Segue)
by Arturo Verna
Però si potrebbe ancora dire toglimento o togliersi in riferimento al credere che sia posto ciò che in verità non lo è. Insomma, la negazione è, in fondo, solo dell’opinione che assolutizza il relativo.
by Marco Cavaioni
Ritengo importante sottolineare, infine, un ultimo aspetto.
Allorché fai giustamente rilevare che perdersi nella verità “significa incrinare la fiducia circa i propri convincimenti”, si potrebbe, radicalizzando, notare, forse, che anche quella era “fiducia” solo apparente, nel senso di parvente, e che l’incrinarsi di tale (falsa) fiducia nelle proprie opinioni non conduce alla (vera) fiducia, che è la fiducia nella verità, poiché quest’ultima è già operante nello sgretolarsi delle fiducie indebite, inautentiche, revocate in dubbio appunto in forza della originaria fiducia nella verità, fiducia che diremmo, quindi, critica rispetto a ciò che sembrava affidabile ma non lo era.
Saresti d’accordo con queste osservazioni che il tuo commento mi suscita? Oppure hai qualche rilievo da propormi?
Grazie sin d’ora, un cordiale saluto.
by Arturo Verna
Assolutamente d’accordo: vera fede può essere solo la fede nel vero. Qui si radica l’intolleranza delle fedi. Sono intolleranti proprio perché non sono veramente fedi, perché immaginano (temono) che il creduto non sia così saldo come credono. Cioè il fedele intollerante è potenzialmente un infedele: è intollerante proprio perché veramente non crede, proprio perché sospetta dell’infondatezza della sua fede e pensa di corroborarla mettendo a tacere chi la pensa diversamente. D’altra parte, se la filosofia è intenzione di verità allora non può che essere affidarsi alla verità. Il che poi significa che la fede non è per sé stessa irrazionale, ché anzi si ha veramente fede soltanto mettendo in questione ciò in cui si crede, perché appunto lo si mette in questione nella speranza che si affermi da sé
by Alessandro Negrini
Alla luce di queste importanti riflessioni, vorrei aggiungere un’ulteriore prospettiva. Se assumiamo il discorso e il concetto del “perdersi nella verità” nell’ambito della riflessione sulla coscienza, possiamo dire che la coscienza è se stessa (è cioè autocoscienza) quando perde se stessa nel senso della coscienza empirica. Perdere sé nella verità significa, per la coscienza, perdere la fattualità empirica nella quale si identifica per ritrovare il vero di se stessa, la vera coscienza, nella coscienza trascendentale che non è più determinata come mia o tua o di qualcuno. Dunque, l’autocoscienza è la verità della coscienza che la coscienza ritrova in sé perdendo la sua determinazione empirica fattuale. Se ciò è vero, allora abbiamo un problema. (segue)
by Alessandro Negrini
Se la coscienza che si determina empiricamente si trova nella condizione di dover perdere se stessa, cioè appunto la determinazione, per essere veramente se stessa, ciò che devesi perdere non è se stessa, perché se stessa è questo porsi per poi negarsi, cioè determinarsi e poi perdere la determinazione. E poiché ciò che si ritrova, ovvero ciò che si determina per poi perdersi per ritrovarsi, non è il determinato, e dunque non è l’empirico, ma è il trascendentale, e quindi l’assoluto, ne emerge che è ben l’assoluto stesso che si perde in quanto determinato per ritrovarsi assoluto. Il che però è assurdo. E’ assurdo che l’assoluto si muova, si ponga si neghi e si ritrovi. Tutto ciò non ha senso. Cioè: c’è un’aporia. (segue)
by Alessandro Negrini
La via al superamento dell’aporia è data dal ripensamento delle nozioni di verità e di coscienza (e quindi del senso del perdersi della coscienza nella verità) alla luce della dialettica di innegabile e inevitabile. La dialettica innegabile-inevitabile è un tema presente da sempre nella riflessione filosofica di Aldo Stella, e che ha trovato nell’ottava delle sue ultime Riflessioni Teoretiche (opera che in questo sito abbiamo presentato e che, giova ricordare, può essere scaricata liberamente nella sezione La Collana), un’accurata esposizione che conduce a questa consapevolezza: l’intelligibilità teoretica di ogni dialettica è condizionata dalla dialettica di innegabile e inevitabile. In particolare, anticipo in modo un po’ generale, anche la nozione fondamentale di “atto”, che è il concetto logico che consente di superare tutte le aporie della relazione, è attraversata da questa dialettica.