Opinione, confutazione e verità.
Continuando idealmente il discorso affrontato nella discussione precedente relativa al “perdersi nella verità” e alla figura teoretica della “intenzione di verità” quale presenza del vero operante nell’uomo, ci vorremmo, ora, chiedere in cosa consista questo “operare” della verità in noi, nella nostra coscienza.
L’operare del vero, pur nella sua intangibile assolutezza, ci sembra consista nel toglimento dell’errore o, meglio, nel dissolvere la pretesa – in cui consiste l’opinione o certezza soggettiva – di essere immediatamente verità. “Immediatamente” qui significa: sottraendosi alla discussione (domanda) se essa effettivamente lo sia.
In tale sottrarsi a questionamento, connaturato all’opinare (al suo credersi verità) si insinua l’errore, che rende inaffidabile la doxa (l’opinione, appunto) come tale. Essa è, dunque, esposta costantemente al rischio (possibilità) di non essere vera, pur intendendo sempre di esserlo.
La domanda si radicalizza come segue: si tratta di reperire un’opinione, tra le molte, che sia (si dimostri) vera o, piuttosto, si imporrà la necessità di oltrepassare il piano stesso delle opinioni?
Connaturato all’essere opinione è opporsi ad altra opinione (ancorché il contenuto asserito non sia necessariamente opposto), nel tentativo di escludere l’altra opinione, onde affermarsi (porsi) come verità, quindi come unica a valere. La struttura è, insomma, l’alternativa, così formalizzabile: “è vero x o non-x?” o, più semplicemente, “x o non-x?”
Veniamo al punto decisivo: come avviene lo scioglimento dell’alternativa, la caduta di uno dei due opposti, ciascuno dei quali pretende di essere vero, escludendo l’altro da sé? Meglio: cosa opera tale toglimento? Meglio ancora: in forza di cosa si attua tale toglimento?
Anzitutto, è da osservare che questo toglimento è ciò che si è soliti denominare confutazione (élenchos). Formalmente, esso appare essere un processo dimostrativo, poggiante sull’opposizione tra due tesi (in realtà, due ipotesi) determinate, procedimento da cui risulta che una delle due sarebbe vera ovvero innegabile, mediante appunto il togliersi (negarsi) dell’altra.
In altre parole, si avrebbe il trionfo di una delle due opinioni nell’opposizione reciproca e a muovere essenzialmente da questa.
* * *
A noi sembra che non sia questo il senso autentico e radicale della confutazione.
La confutazione, infatti, non è un metodo, grazie al quale si passi a verificare – nei termini appena indicati – quale tra due opinioni valga come vera, risultando tale dal venir meno della opinione opposta (e, quindi, della stessa opposizione da cui pur il procedimento prende le mosse, non potendo cioè prescinderne, ma parimenti finendo per negarla).
L’élenchos, infatti, radicalmente inteso, ci sembra sia il toglimento dell’opinione come tale – e non la conferma di una tra le opinioni –, nonché la dimostrazione dell’inconsistenza della medesima opposizione, che si rivela essere la struttura dell’opinione, non della verità.
Per quale ragione? Per la seguente: che l’autentico innegabile è l’assoluto ossia il vero stesso, il quale, proprio perché assoluto, non abbisogna né può abbisognare dell’opposto per imporsi su questo, “risultando” innegabile.
Esso è tale in se stesso o non lo sarebbe mai, perché, se dovesse risultare tale, esso sarebbe debitore dell’opposto (posto come negato) e del processo da cui deriverebbe, “risultando” appunto innegabile. Sarebbe, dunque, tutt’altro che assoluto e, se assoluto e vero dicono lo stesso, sarebbe tutt’altro che vero.
Dunque, ci sembra di dover concludere che la confutazione libera (purifica l’anima) dalla pretesa connaturata all’opinione come tale di essere verità, cioè di valere quale possesso del vero. Si perviene, in altre parole, a sapere in modo innegabile (cioè non opinativo) che nessuna opinione è mai stata altro che una mera pretesa, illegittima, di essere verità.
Non solo, essa ci libera altresì dal pericolo di venire “posseduti” dalle nostre stesse opinioni, ossia dalla tendenza ad identificarci con esse, finendo per essere tutt’uno, in una sorta di legame biofisico, con le nostre certezze e con la conflittualità (logica oppositiva) rispetto alle certezze opposte.
La confutazione ci ricorda, insomma, che noi apparteniamo non alle nostre certezze ma alla verità, nella quale non può sussistere opposizione alcuna.
Essa ci emancipa, così, anche dal timore dell’errore, poiché – parafrasando l’acuta osservazione che Hegel fa nella Introduzione della Fenomenologia dello spirito – temere l’errore significa, in realtà, aver paura della verità, dubitare cioè del suo essere presente ed operante in noi anche nell’errore, dal quale ci permette di uscire, consapendolo: solo la paura dell’errore potrebbe dare (o credere di dare) consistenza all’errore, che ne è privo.
Un’ultima osservazione va spesa per chiarire che, nell’atto del confutare, è del tutto irrilevante chi sia il confutante e chi il confutato, dal momento che la confutazione non è l’imposizione dell’opinione del primo sul secondo, bensì è l’imporsi del vero e della sua inappropriabilità ad entrambi.
Inoltre, il confutato, riconoscendo la confutazione, la fa propria e non la subisce come una sconfitta.
Nella confutazione, perciò, non ci sono mai vincitori né vinti, ma sempre e solo compagni nella medesima intenzione di verità.
Potremmo dire che la “competizione” stessa si purifica nel senso etimologico del “cum-petere” ossia del tendere (petere) assieme (cum) verso la comune, universale destinazione dell’uomo che è la verità.
5 Comments
by Luigi la Via
In lingua italiana o in qualunque lingua si vede che la realtà, la verità, è la sfida, la cosa stessa presente e continua. Se fosse esaurita e tolta la sfida sarebbe la piena luce, la assenza di dubbio, di ricerca, di conferma, verifica, rettifica, o novità, luce nuova, diversa, e quindi è l’assurdo, una sorta di buio di onniscienza o di dubbio assoluto, come la ricerca di Popper che non arriva mai, neanche in un luogo infinito, eterno. Invece, fatto sta che la verità c’è. E che altro dovrà essere? È normale. C’è una serie di cose che sono sapute, confermate. Non ha senso dover sempre dubitare di tutto. O di niente. Vero significa lo stesso che falso e opposto ma lo stesso: è ciò che è detto, saputo, nelle scienze o nei giornali, nell’enciclopedia, e quindi potrebbe non esserlo affatto. (Ma, potrebbe, in che senso?) E solo così ha senso dire: è. È evidente.
by Matteo
Per poter affermare qualcosa, bisogna definirla in positivo, o negativo come si voglia vederla.
Se la verità è ciò che è innegabile e assoluto, non è già limitarla?
Perchè poi sarebbe innegabile? Per sua stessa definizione, ciò che è vero è ciò che è assolutamente vero, ciò che non può essere negato. È un concetto elementare, indefinito. Ma se è indefinito resta sempre sottodeterminato
by Marco Cavaioni
L’assoluto cioè il vero, proprio perché innegabile sarà necessariamente anche indeterminabile, dal momento che – come Spinoza insegna – determinare e negare sono la stessa cosa (omnis determinatio est negatio).Ciò che non può venire negato, per ciò stesso, non potrà venire determinato.
La verità non può venire affermata, appunto perché ogni affermazione, dovendo essere determinata, di certo (per quanto appena detto) sarebbe tale in forza di una negazione: ma “negare l’innegabile” non è negazione affatto, essendo una contraddizione.
Dunque, pretendere di dire (affermare determinatamente) l’innegabile costituisce la medesima contraddizione, quindi l’assurdità, rappresentata dalla sua pretesa negazione.
Il vero non può venire negato per la medesima ragione che non può venire affermato (determinato).
Sottolineo: “indetermnabile”, e non “indeterminato” (e, dunque, bisognoso di venire determinato).
by Marco Cavaioni
Al Prof. La Via, caro amico nonché stimato interlocutore di molte passate discussioni, vorrei replicare come segue.
Non è, forse, la certezza soggettiva stessa a presentarsi (sottolineo: presentarsi, apparire, darsi, mostrarsi) non come mera certezza, bensì come realtà ed evidenza?
Ma, se la certezza soggettiva, che non è verità, può presentarsi come evidenza (e l’evidenza è, invero, modo del presentarsi, dell’apparire stesso) ma senza esserlo effettivamente, allora che affidamento posso fare all’evidenza, se appunto essa non è garante nemmeno di se stessa, cioè se non mi garantisce del suo essere “veramente” evidenza come, presentandosi, pur pretende?
(Segue)
by Marco Cavaioni
Del resto, perché appare evidente “x” a me, mentre appare evidente “y” a Luigi, o “z” a Matteo e così via? Perché quello x e quello y o z appaiono evidenti (rispettivamente a me e al mio sistema di rilevamento e a Luigi e al suo sistema di rilevamento) ma non sono evidenti, altrimenti si imporrebbe come evidente a tutti x o y oppure z.
Non è, dunque, l’evidenza stessa sottoposta alla verità (criteriata dalla verità), senza che, all’inverso, l’evidenza possa ergersi a criterio della verità?
Ma – aggiungo – una evidenza che non sia immediata, che cioè si lasci discutere (questionare, “criticare”), sarebbe ancora evidenza, dal momento che, se lo fosse davvero, sarebbe semmai indiscutibile ovvero renderebbe impossibile ogni questionamento?
Con una precisazione: non si discute *una* evidenza sulla base di un’altra evidenza (supposta) maggiore, ma si discute l’evidenza *come tale* e, dunque, se ne revoca una volta per tutte la pretesa di valere come verità o, peggio, criterio di verità.